Intervista a Michele Marchi su sistema politico francese e italiano | la CRONACA di RAVENNA

Intervista a Michele Marchi su sistema politico francese e italiano

Alla Biblioteca Oriani venerdì 15 lo storico e accademico presenta il suo libro “Presidenzialismo a metà”

14 dicembre 2023 - Domani pomeriggio, venerdì 15 alle 17, la Biblioteca Oriani di Ravenna ospita la presentazione del libro Presidenzialismo a metà. Modello francese, passione italiana, appena pubblicato dalle edizioni Il Mulino e scritto dal professor Michele Marchi. Bolognese, storico, allievo di Paolo Pombeni, Marchi vive da quattro anni a Ravenna, dove coordina il Corso di laurea triennale di Storia, Società e Culture del Mediterraneo. Alla presentazione parteciperanno anche il sindaco Michele de Pascale, il presidente della Fondazione Casa Oriani, Sandro Rogari, e la giornalista del Foglio Marina Valensise.

Professore, perché un libro su questo tema?

Di base, perché sono un esperto di storia politica francese fin dalla tesi di dottorato, un lavoro di storia comparata su Italia e Francia tra Seconda guerra mondiale e anni Sessanta. Poi, da un lato il tema attuale della riforma nel contesto italiano ha accelerato e spinto in questa direzione. Quindi un po’ c’è l’interesse quasi ventennale di ricerca, e dall’altra parte l’idea di questa transizione, che a sua volta data ormai da un trentennio nel contesto italiano.

Leggendo il libro, si coglie subito un aspetto: va bene parlare di modello alla francese, ma c’è una bella differenza in termini pratici, a seconda di chi siede come inquilino dell’Eliseo.

Certo, in un sistema caratterizzato dalla centralità del potere esecutivo, sostanzialmente monocratico – anche se esiste il primo ministro, che spesso, come mostro nel volume, è qualcosa di più di un collaboratore – è evidente che la dimensione di leadership personale è più rilevante. Io cerco di far capire che contano le persone, e le culture politiche attorno alle quali il modello evolve. Peraltro non sono un giurista, o un costituzionalista, né tanto meno un politologo: per me il divenire è sempre fatto da persone, è la logica della storia che interessa a me, l’esempio di Marc Bloch. Fare storia politica non significa soltanto applicarsi allo studio del passato, ma concentrarsi sul divenire degli esseri umani. E, in questo caso, in particolare i politici.

Veniamo all’interesse che c’è in Italia per il tema del presidenzialismo.

Il vero problema italiano è che, da quando è crollata la cosiddetta Prima repubblica e siamo andati verso questa – non meglio definita – seconda o terza, il grande tema è stato garantire governabilità al sistema. Dal 1994 a oggi, alcuni politologi hanno fatto i conti e verificato che il livello e il numero dei governi è più o meno uguale a quello della Prima repubblica. Il governo in carica vorrebbe l’elezione diretta del capo dell’esecutivo: ma qui si ferma. Non dice bene però cosa ne sarebbe in caso di riforma del presidente della Repubblica, che pure in questi ultimi anni ha avuto un ruolo sempre più preminente.

Peraltro, il cosiddetto “premierato” è un modello inesistente al mondo: l’elezione diretta del capo del Governo è esistita solo a fine millennio in Israele, ma poi è subito abortita; il modello proposto oggi in Italia sarebbe un unicum, con un ulteriore grosso problema non specificato: con quale si sistema elettorale ci si confronta? Quando si procede all’elezione diretta del capo dell’esecutivo, come appunto per il semipresidenzialismo francese, deve esserci almeno la maggioranza assoluta dei votanti, ecco perché esiste il ballottaggio se nessun candidato raggiunge al primo turno la maggioranza assoluta, quindi il ballottaggio: ma qui non si capisce, forse basta anche quella relativa, con l’aggiunto di un alto premio di maggioranza per la coalizione che sostiene il premier vincente.

E non si dice, ripeto, che cosa fare del presidente della Repubblica. Sarebbe delegittimato? Cosa resterebbe a fare? Insomma, questa ipotesi di riforma mi pare un po’ un ibrido, il “vorrei ma non posso”. Nel programma di Meloni si parlava di presidenzialismo, non di premierato. È il cul de sac in cui si è infilata questa riforma. In sintesi: si voleva andare all’elezione diretta, ma si aveva paura di proporre un sistema presidenziale o semipresidenziale, e questa formula ibrida difficilmente potrà avere concretizzazione.

Quello francese sarebbe un modello utile per l’Italia?

Come cerco di dimostrare, va preso con tutti i pro e i contro. Il pacchetto completo dice che il sistema ha funzionato molto bene, anche con presidente e primo ministro di due partiti diversi; ma oggi Macron, al secondo mandato, rieletto non molto bene, non ha la maggioranza assoluta in Parlamento, ma non esiste nemmeno una maggioranza alternativa che possa creare una coabitazione. E il primo ministro ogni volta deve costruirsi una maggioranza parlamentare o fondare la sua azione su un fantomatico articolo costituzionale (il 49.3), che permette di far passare un provvedimento senza dibattito in aula, impegnando la fiducia del governo che può essere rovesciato solo con una mozione di sfiducia a maggioranza assoluta dell’Assemblea nazionale stessa. 

Che cosa potrà succedere in Francia, quando Macron avrà chiuso il secondo mandato?

Macron non potrà essere nuovamente candidato, è nel secondo anno del secondo mandato, e per ora non ha mai lavorato per radicare una nuova cultura politica: quindi sarà difficile trovare non solo un erede politrico, ma anche una filiera che possa sorreggere il macronismo a livello parlamentare. In più, c’è Marine Le Pen: tra il 2012 (sua prima partecipazione a un’elezione presidenziale) e il 2022 ha acquisito quasi due milioni di voti in più al primo turno, quindi rappresenta una forza politica forte, sarà candidata quasi sicuramente nel 2027 – mentre non sappiamo ancora chi parteciperà negli altri fronti – e, a meno di stravolgimenti, andrà per la terza volta consecutiva al ballottaggio.

Dagli anni Novanta la Francia sta vivendo una sorta di di dérèglement (possiamo tradurlo con squilibrio), sono saltati gli schemi tradizionali destra-sinistra: la Francia è un po’ il laboratorio di questo quadro. Il tema aggregante di forze radicali, sia a destra sia a sinistra, rischia di far saltare in aria anche sistemi come quello francese che sembravamo in grado di digerirle. Tale squilibrio si concretizza in movimenti di protesta antiglobalizzazione o antieuropei. Sappiamo che è un fenomeno più ampio e globale, che agisce in maniera radicale sui sistemi politici.

In tutto questo, la complicata questione dell’integrazione quanto conta nello spazio francese?

Lo si è visto in tante situazioni: il problema delle terze generazioni nel contesto francese, cioè la difficile integrazione e il non riconoscersi nei valori repubblicani di quelli che sono i nipoti dell’emigrazione post-coloniale degli anni Cinquanta e Sessanta, è carburante ideologico per una certa propaganda politica. Sicuramente anche la prossima campagna si giocherà su questi temi, sull’incapacità del sistema transalpino nell’integrare quelli che a tutti gli effetti sono cittadini francesi.

Tutta la classe politica francese di governo è abbastanza concorde sulla necessità di regolare l’immigrazione attuale: ma il problema la Francia ce l’ha già all’interno. Questi sono già cittadini francesi, ma politicamente non si riconoscono e non sono rappresentati. Macron su questo non ha ottenuto alcun risultato, la situazione si trascina dalla crisi delle banlieues del 2005, quindi ormai da vent’anni, ed è solo peggiorata. È una polveriera, e il nuovo conflitto in Medio Oriente getta ulteriore benzina sul fuoco. E alla fine, questo metterà in una situazione rischiosa una delle due parti dell’asse franco-tedesco, che è una delle due forze che tradizionalmente trascinano l’Europa, anche a livello politico.

Questo deve farci riflettere: l’Italia, negli ultimi anni, nonostante fasi anche gravi di crisi diplomatica (pensiamo all’epoca dei Cinque Stelle al governo e al loro sostegno al movimento dei gilets jaunes), grazie soprattutto al ruolo svolto dalla presidenza della Repubblica (e anche all’ottima relazione personale tra Macron, Mattarella e Draghi) ha costruito rapporti bilaterali con Parigi di alto livello, sfociati poi nella firma del trattato del Quirinale. Su molti dossier europei Parigi e Roma portano avanti temi congiunti (pensiamo solo alla battaglia comune sulla riforma del patto di stabilità). Avere un alleato in difficoltà può essere un problema anche per noi.


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