Aung San Suu Kyi. Un’eroina nel cuore della contraddizione | la CRONACA di RAVENNA

Aung San Suu Kyi. Un’eroina nel cuore della contraddizione

Intervista al regista Marco Martinelli sul film del Teatro delle Albe dedicato alla leader birmana in scena questa sera a Castiglione per la rassegna E' temp

27 luglio 2020 - Il primo film del Teatro delle Albe, Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, verrà proiettato questa sera a Palazzo Grossi di Castiglione di Ravenna per la rassegna E’ temp di Ravenna Teatro. La regia è di Marco Martinelli, che con Ermanna Montanari ha firmato il soggetto. Protagonista è la stessa Montanari, nei panni della leader birmana Premio Nobel per la pace; con lei partecipano al film attori delle Albe, come Roberto Magnani, Massimiliano Rassu e Fagio, oltre a Sonia Bergamasco, Elio De Capitani e a una cinquantina di bambine ravennati che hanno un ruolo di rilievo nella vicenda.
Uscito nel 2017, Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è stato finora proiettato con grande successo in più di trenta città in Italia, Svizzera e Francia. È un film d’arte che fa seguito allo spettacolo teatrale omonimo, del 2014, distaccandosene però in gran parte per il carattere peculiare dell’opera cinematografica. La storia alla quale si riferisce è complessa, ma è stata ricostruita grazie a una documentazione molto seria e accurata.
Ne abbiamo parlato con Marco Martinelli, cofondatore delle Albe, drammaturgo, regista teatrale e ora anche regista cinematografico con più di un titolo al suo attivo.


Marco Martinelli, com’è nato questo film?
“Ermanna Montanari e io abbiamo cominciato a lavorare su Aung San Suu Kyi nel 2013. Ci sembrava una storia da raccontare quella di questa minuta donna orientale che si oppone a un potere feroce e sanguinario con la propria mitezza e con la pratica della non violenza. Restando chiusa nella propria casa, agli arresti domiciliari, per più di vent’anni, Aung San Suu Kyi è diventata il simbolo della rivolta a quel potere. La dittatura in Birmania è stata la più longeva di tutto il Novecento, è durata fino ai primi anni del nostro secolo e sotto certi aspetti non è ancora finita, anche se si è passati a una sorta di semi democrazia. Così è nato lo spettacolo teatrale che ha debuttato nel 2014 e poi abbiamo avuto l’idea di ricavarne un film: non di girare lo spettacolo, ma di prenderlo come punto di partenza per una sceneggiatura nuova che ne utilizzasse dei materiali trasfigurandoli però in cinema.
La documentazione nuda e cruda di uno spettacolo è un tradimento: non c’è più l’aria intorno ai corpi, non c’è più lo spazio, manca quella bellezza dell’essere vivo che è propria del fatto teatrale. Quello del cinema è completamente un altro linguaggio e da lì siamo ripartiti; d'altronde il cinema è così anche nel rapporto con la letteratura: la trasposizione di un romanzo deve essere molto libera perché sono coinvolte tecniche e visioni differenti”.

Nel film, oltre ad Aung San Suu Kyi, ci sono altri personaggi. Quali sono e chi li interpreta?
“Il primo personaggio è una bambina che rappresenta proprio la chiave di trasformazione dallo spettacolo all'opera cinematografica. In teatro non c’era, ce la siamo inventata per il film, ed è una bambina che si perde in un labirintico magazzino di oggetti teatrali. Lì dentro incontra Aung San Suu Kyi e da quel momento questa bambina diventa la nostra maestra insegnandoci la storia della Birmania, senza conoscere la quale non possiamo comprendere la vicenda umana della protagonista. La bambina poi si moltiplica all'interno del film, dopo di lei ce ne saranno altre tre o quattro a narrare tutta la storia, fino a diventare a metà del film un vero e proprio coro.
La cosa curiosa è che noi eravamo partiti pensando a un’unica bambina; quando abbiamo fatto le audizioni al Teatro Rasi ne sono venute una cinquantina ed erano tutte così belle, così espressive, così piene di potenza che abbiamo detto: no, devono esserci tutte. Così abbiamo riscritto la sceneggiatura. Tra gli altri interpreti ci sono gli attori delle Albe che con Alice Protto erano già nello spettacolo, come Roberto Magnani, Max Rassu e Fagio, che incarnano tre figure diverse di generali, e amici con cui da tempo ci eravamo ripromessi di lavorare insieme, Sonia Bergamasco ed Elio De Capitani.

Sulla figura di Aung San Suu Kyi si sono accese molte controversie a causa del suo atteggiamento quanto meno indifferente nei confronti dei Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata dal potere birmano. Qual è il suo parere?
“Da una parte il film è racchiuso in una cornice temporale ben precisa, cioè la vita agli arresti, e termina nel 2010 con la liberazione di Aung San Suu Kyi, quindi possiamo dire che non è toccato dalla vicenda successiva. Dall’altra le dirò con molta franchezza che il pensiero di Ermanna e mio non è cambiato di una virgola. Noi pensiamo che Aung San Suu Kyi stia facendo quello al quale il suo popolo e la storia di quel paese l'hanno chiamata; sta continuando a combattere contro i generali, che mantengono ancora un grande potere. L’hanno creata loro questa situazione e si sono tenuti i ministeri chiave come quelli dell'economia e della difesa; anche se il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia, ha vinto le elezioni nel 2015 con più del settanta per cento dei voti, non può accedere a quei ministeri e quindi quella della Birmania è una democrazia zoppa.
La situazione è molto più complessa di quanto in genere si pensi dalle nostre parti. Ma che cosa dovrebbe fare Aung San Suu Kyi? Secondo i media occidentali dovrebbe tornare qui, per dire che i generali sono cattivi e continuare a fare l’eroina nei talk show. Sarebbe molto più facile per lei, che invece ha scelto di stare nel cuore della contraddizione. Aung San Suu Kyi, che è una donna di grande cultura, ripete una frase di santa Caterina da Siena: preferisco la carità all’ammirazione del mondo. Per lei perdere la reputazione non è niente, rispetto a perdere la carità”.

Patrizia Luppi
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