Sopra le righe
Stanchezza, tachicardia, fatica a respirare: i sintomi post Covid che durano mesi. INTERVISTA
L'analisi del professor Venerino Poletti, pneumologo e direttore del Dipartimento Malattie dell’Apparato Respiratorio e del Torace dell’Ausl di Romagna

03 febbraio 2022 - Se già è difficile convivere con l’idea di ammalarsi di Covid-19, evento assai frequente con la recente variante Omicron, ancor più complicato è immaginarsi che certi sintomi possano durare nel tempo.
Il cosiddetto long-Covid è però una realtà solo in alcuni casi. Quelli in cui i pazienti, pur essendo guariti, continuano a manifestare disturbi più o meno importanti che impediscono il ritorno a una vita normale.
A parlarne è il professor Venerino Poletti, pneumologo e direttore del Dipartimento Malattie dell’Apparato Respiratorio e del Torace dell’Ausl di Romagna, docente universitario. «Nella maggioranza dei casi l’infezione da Sars-CoV-2 è asintomatica o poco sintomatica. Tuttavia, soprattutto per le persone anziane, in quelle obese e diabetiche, può manifestarsi con un quadro clinico anche grave e letale. Ed è sempre in questo gruppo di persone che, con maggiore probabilità, i sintomi possono persistere a lungo, anche dopo la guarigione microbiologica.
In circa il 50-60% dei casi, chi si ammala in modo importante, avverte sintomi quali la stanchezza, la fatica a respirare, la tachicardia, la febbricola o la difficoltà a concentrarsi, a due mesi dalle dimissioni dall’ospedale. Questa percentuale si riduce, ma resta comunque alta, attorno al 40%, dopo che sono trascorsi sei mesi».
Inevitabile chiedersi quale sia la lesione nei polmoni che possa spiegare la persistenza di fatica a respirare e febbricola. «Un nostro studio – aggiunge il professor Poletti – condotto su biopsie polmonari ottenute in questi soggetti, ha documentato un’infiammazione negli alveoli che persiste nonostante il genoma virale non sia più identificabile. C’è però una buona notizia: queste sequele polmonari si riducono significativamente dopo 8-12 mesi dall’infezione acuta. In definitiva, il long-Covid purtroppo esiste e i suoi profili clinici, così come i meccanismi che lo determinano non sono ancora del tutto chiari. La ricerca sta però già producendo dati importanti che sembrano rassicuranti visto che, nella maggioranza dei casi, i dati irreversibili appaiono abbastanza rari. Escludendo però quelli derivati dalla ventilazione meccanica adottata nei pazienti intubati».
In generale, è l’ospedale a occuparsi di garantire attenzione e disponibilità alle visite di controllo per chi ha dovuto affrontare polmoniti gravi. Considerando i pesanti strascichi della prima ondata, ora la speranza è che il recupero dei pazienti sia più rapido e migliore in quest’ultima ondata.
© copyright la Cronaca di Ravenna
Il cosiddetto long-Covid è però una realtà solo in alcuni casi. Quelli in cui i pazienti, pur essendo guariti, continuano a manifestare disturbi più o meno importanti che impediscono il ritorno a una vita normale.
A parlarne è il professor Venerino Poletti, pneumologo e direttore del Dipartimento Malattie dell’Apparato Respiratorio e del Torace dell’Ausl di Romagna, docente universitario. «Nella maggioranza dei casi l’infezione da Sars-CoV-2 è asintomatica o poco sintomatica. Tuttavia, soprattutto per le persone anziane, in quelle obese e diabetiche, può manifestarsi con un quadro clinico anche grave e letale. Ed è sempre in questo gruppo di persone che, con maggiore probabilità, i sintomi possono persistere a lungo, anche dopo la guarigione microbiologica.
In circa il 50-60% dei casi, chi si ammala in modo importante, avverte sintomi quali la stanchezza, la fatica a respirare, la tachicardia, la febbricola o la difficoltà a concentrarsi, a due mesi dalle dimissioni dall’ospedale. Questa percentuale si riduce, ma resta comunque alta, attorno al 40%, dopo che sono trascorsi sei mesi».
Inevitabile chiedersi quale sia la lesione nei polmoni che possa spiegare la persistenza di fatica a respirare e febbricola. «Un nostro studio – aggiunge il professor Poletti – condotto su biopsie polmonari ottenute in questi soggetti, ha documentato un’infiammazione negli alveoli che persiste nonostante il genoma virale non sia più identificabile. C’è però una buona notizia: queste sequele polmonari si riducono significativamente dopo 8-12 mesi dall’infezione acuta. In definitiva, il long-Covid purtroppo esiste e i suoi profili clinici, così come i meccanismi che lo determinano non sono ancora del tutto chiari. La ricerca sta però già producendo dati importanti che sembrano rassicuranti visto che, nella maggioranza dei casi, i dati irreversibili appaiono abbastanza rari. Escludendo però quelli derivati dalla ventilazione meccanica adottata nei pazienti intubati».
In generale, è l’ospedale a occuparsi di garantire attenzione e disponibilità alle visite di controllo per chi ha dovuto affrontare polmoniti gravi. Considerando i pesanti strascichi della prima ondata, ora la speranza è che il recupero dei pazienti sia più rapido e migliore in quest’ultima ondata.

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