Al Festival, l’Accademia Bizantina diventa Romantica. INTERVISTA a Ottavio Dantone | la CRONACA di RAVENNA

Al Festival, l’Accademia Bizantina diventa Romantica. INTERVISTA a Ottavio Dantone

Tutto Ottocento per il concerto di questa sera, una novità per il gruppo ravennate specializzato in musica barocca

05 giugno 2021 - Un passo in avanti cronologico e un’importante svolta: il concerto in programma questa sera alla Rocca Brancaleone vedrà l’Accademia Bizantina, il gruppo ravennate finora dedito alla musica del Sei e Settecento, affacciarsi per la prima volta sul secolo del Romanticismo, l’Ottocento, con due sinfonie di Felix Mendelssohn e di Robert Schumann.
Rispetto alle esecuzioni di musiche di questo periodo che siamo abituati ad ascoltare, la differenza sarà palpabile, perché l’Accademia Bizantina suona su strumenti d’epoca e da decenni si è specializzata, con il suo direttore Ottavio Dantone, in esecuzioni storicamente informate, basate su una ricerca sulle fonti e sulle prassi esecutive che si traduce in visione estetica.
Così, dell’“Italiana” di Mendelssohn e della “Renana” di Schumann potremo, prevedibilmente, percepire con maggior chiarezza gli aspetti legati a un preciso periodo storico e il rilievo delle radici che affondano nel passato, in una resa strumentale e in una lettura interpretativa diverse dal consueto.
Ottavio Dantone, peraltro, si occupa da tempo con altre orchestre del repertorio classico e romantico; tra i suoi prossimi impegni, la rossiniana “Italiana in Algeri” in settembre al Teatro alla Scala. Abbiamo parlato con lui del concerto che dirigerà questa sera
.

Ottavio Dantone, perché è così importante il discorso sugli strumenti che si impiegano per la musica di determinati periodi?

«Lo strumento antico con tutti i suoi accessori, per esempio l'arco, è una componente essenziale per ottenere più facilmente gli effetti dinamici, articolatori, prosodici, estetici dell'epoca: quelli che erano nelle intenzioni del compositore. È possibile ottenere questi effetti anche con strumenti moderni, ma con molta più fatica.

Nel caso di queste due sinfonie, ascoltandole in concerto e poi anche nel disco che uscirà si potrà constatare che i rapporti sonori tra le varie sezioni di strumenti, ovvero tra gli ottoni, i legni e gli archi, sono differenti, perché quando il compositore scriveva aveva in mente proprio quegli strumenti, quindi dei precisi equilibri. È sbagliato dire che se il compositore avesse avuto gli strumenti moderni avrebbe usato quelli: se il compositore avesse avuto gli strumenti moderni, avrebbe scritto in maniera diversa».

Per queste sinfonie, che risalgono al 1833 e al 1850, userete gli stessi strumenti su cui suonate la musica dei secoli precedenti?

«Per la maggior parte sì. Chiaramente, i fiati no. Gli strumenti a fiato già a quei tempi andavano cambiando radicalmente, parlo delle trombe, dei flauti, dei clarinetti e anche degli oboi; ma per quanto riguarda gli archi, cioè violini, viole, violoncelli e contrabbassi, l'unica cosa che cambiamo è l'arco. Rispetto a quello che usiamo per la musica del Settecento è leggermente più pesante, ma più leggero di quello moderno, e risponde alle esigenze della musica dell'Ottocento riguardo alla proiezione del suono e all’articolazione.

L’intenzione di questa operazione è quella di dimostrare che moltissimi gesti musicali dell’Ottocento sono in parte ancora simili a quelli del secolo precedente. Suonare questa musica come facciamo noi, provenendo da un'esperienza esecutiva ed estetica del passato, comporta un modo di fraseggiare, di attaccare il suono e altri gesti musicali che risalgono alla fine del Settecento e si utilizzavano ancora all’epoca di Mendelssohn e di Schumann. Partendo invece da una lettura più moderna, come nelle esecuzioni che di solito si ascoltano, ovviamente l’approccio è un po’ diverso.

Non si può dire cosa sia meglio e cosa sia peggio, ma quello che noi facciamo è molto più vicino all'estetica e all'intenzione del compositore. Il fine ultimo non è quello di fare per forza qualcosa di originale, nel senso di qualcosa di quell’epoca, ma di restituire l'intenzione musicale che probabilmente è la più vicina a quella del compositore».

L'Accademia Bizantina come ha affrontato questa novità, con quale spirito?

«Con grande entusiasmo fin dall'inizio. Quest’idea è nata un anno e più fa come un percorso, non necessariamente in ordine temporale, che ci vede affacciarci a questo repertorio. Abbiamo altri progetti sul periodo preromantico o classico. Non è tanto una scommessa, ma un modo per dimostrare che questo tipo di operazione ha un senso soprattutto nel consegnare all'ascoltatore delle emozioni, dei codici, degli effetti che normalmente non vengono messi in rilievo. Partendo come noi dal passato, rispetto alla composizione, si è abituati a sottolineare degli aspetti che partendo invece dal presente, diciamo dalla concezione moderna della musica, passano quasi inosservati.

Non mi piace però che si pensi che noi, o le altre orchestre barocche che da un ventennio soprattutto all’estero stanno seguendo percorsi simili, vogliamo insegnare qualcosa agli altri, assolutamente no. La nostra attenzione e onestà intellettuale ci porta a eseguire questa musica con quell'analisi e quello studio anche scientifico che però alla fine ci libera in qualcosa che deve apparire assolutamente spontaneo e naturale. L'estetica è importante, è importante conoscere come a quell’epoca i compositori pensavano e come reagivano. Credo che presentare una musica secondo l'estetica originale dia la possibilità anche oggi di goderne gli effetti emotivi».

Patrizia Luppi
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