Alluvione/ Mercalli: «Troppa cementificazione in un territorio fragile». Ne parla oggi, giovedì 29, a Faenza | la CRONACA di RAVENNA

Alluvione/ Mercalli: «Troppa cementificazione in un territorio fragile». Ne parla oggi, giovedì 29, a Faenza

Il noto meteorologo è ospite dell'Ordine provinciale degli Architetti, all'evento, aperto al pubblico, organizzato per riflettere sul rapporto fra cambiamenti climatici e difesa del suolo

29 giugno 2023 - Nel pomeriggio di oggi, giovedì 29 giugno alle 17, il cinema Sarti di Faenza, ospita un incontro con il noto meteorologo Luca Mercalli. A un mese dall’alluvione, l’Ordine provinciale degli Architetti – che ha organizzato l’evento, aperto al pubblico – gli ha chiesto di riflettere sul rapporto fra cambiamenti climatici e difesa del suolo, proprio in una delle città più colpite dalle tremende alluvioni di maggio.

Mercalli, dal suo punto di vista come si spiega quel che è accaduto in Romagna?
Prima di tutto senza semplificare, senza le chiacchiere da bar che abbiamo ascoltato in queste settimane, dove tutti sono diventati esperti di idraulica e di clima, dando la colpa di volta in volta alle nutrie, agli alberi caduti e via dicendo. Al contrario, un’alluvione è un fenomeno complesso, motivato da un’infinità di cause che cambiano a seconda dei territori.

Quel che è accaduto in Romagna è la combinazione di un fenomeno naturale – le alluvioni sono sempre esistite – ma con due fattori peggiorativi.
Da un lato il clima rende più intense le piogge, che si sono intensificate e non possiamo quantificarle, quindi rende più grave una fragilità che c’è da sempre (l’alluvione recente più simile a questa fu nel ’39).
Il secondo fattore è la cementificazione, l’enorme quantità di edifici costruiti negli ultimi 50 anni, aggiungendo così tante strutture, capannoni, in un territorio che in tutte le carte si sapeva essere a rischio. Così facendo, ne abbiamo aumentato la vulnerabilità.

Adesso cosa si può fare?
Bisogna convincere la politica. Non tanto lavorare sulla formazione culturale – che è una cosa giusta, ma ha tempi lunghi –: basterebbe una legge ben fatta. Se la politica dice che non si costruisce più niente di nuovo, allora la cosa finisce. Questo dev’essere il monito, e vale per tutti i colori politici.
Non va barattata la crescita economica con la fragilità del territorio. Perché poi ci arriva il conto, in termini di danni e di sofferenza delle persone. Bisognerebbe non aggiungere, in qualche punto anche togliere – non è sempre necessario ricostruire tutto, perché altrimenti ci si prepara per la prossima alluvione – ma almeno in alcune situazioni puntiformi sarebbe importante interrogarsi se è importante scegliere di trasferire le case altrove. Ed è una scelta urbanistica, quindi politica.

Parliamo di argini…
Se li costruiamo sempre più alti, diamo un senso di protezione, ma poi se la forza dell’acqua li travolge, la botta arriva. Gli argini sono un invito a ignorare il rischio. Non si dovrebbe fare una lottizzazione con i villini vicino a un argine alto… Siamo già fortunati a dire che i morti sono stati pochi: almeno ci sono state 24 ore di allerta, i morti potevano essere dieci volte tanti.

Che chi si chiede com’è possibile che sia accaduto per una sola notte di pioggia…
Intanto non è piovuto solo una notte: era già accaduto quindici giorni prima. Poi a metà maggio la pioggia caduta è stata un’enormità, di un’intensità inedita, almeno da quando abbiamo i dati. E da qui in avanti sarà sempre peggio, o comunque non meglio…

A Ravenna, l’allagamento della città si è evitato allagando i campi di una grande cooperativa agricola. È giusto?
È tutto molto logico. Ovunque nel mondo i fiumi esondano. Occupiamo questi territori da secoli, abbiamo costruito attività economiche, è giusto che il fiume possa esondare dove fa il minor danno. Però, il danno, lo devo comunque pagare: allora ci dovrebbe essere un sistema creato a priori, non solo in emergenza…
Creando formule assicurative, magari pubblico-private, dove quando capita questo fenomeno sacrifichiamo qualcosa che definiamo a monte, con una normale contropartita. Sono cose normali, sarebbe stupido non usarle.

Abbiamo fatto bene a bonificare negli ultimi cent’anni: i terreni hanno reso bene, ma ora non deve scapparci il morto. Se ho la sicurezza per le persone – e grazie agli allerta della meteorologia – per il resto posso congelare la situazione territoriale, usare i terreni agricoli per far defluire l’acqua: li coltiviamo finche va bene, e l’anno in cui ho l’alluvione, il sistema paga il danno, e fine… Queste cose vanno decise in tempo di pace, come accade in tantissimi altri posti.

Poi c’è il tema, forse ancor più complesso, delle frane in collina
Bisogna interrogarsi sul futuro. Occorre avere la chiarezza assoluta del fatto che il fenomeno ha superato la resistenza geologica. Non è una questione di manutenzione, di fiumi non puliti, altrimenti torniamo alle chiacchiere da bar. Son venute giù sezioni di collina intera, a prescindere da cosa c’era sopra. Questo ci fa capire che è un fenomeno di portata grandiosa, dovuto a forze naturali enormi con cui dobbiamo fare i conti: si rifà tutto come prima, o possiamo migliorarle? Io credo nel mantenimento di questi luoghi, anche personalmente ho fatto questa scelta di vita, abito in collina, ma dobbiamo interrogarci sui territori fragili.

Infine: tutto quel che è accaduto, era prevedibile?
La commissione De Marchi, dal nome del professore di Padova che la coordinava, fu istituita nel ‘68 dopo l’alluvione di Firenze. Tutte le cose che ho appena raccontato erano già presenti negli esiti della commissione, nei primi anni 70: ma quegli atti furono messi in un cassetto.
Siamo noi che dobbiamo allontanarci dai fiumi, non imbrigliarli. Da 50 anni ripetiamo le stesse cose: e non abbiamo solo perso 50 anni, ma peggiorato le cose, perché la maggior parte dello sviluppo edilizio è venuto dopo. La prima volta che ho seguito da vicino un’alluvione, per lavoro, fu nel ‘93 in Val d’Aosta: e ricordo che all’epoca avrò fatto interviste come questa almeno 500 volte, dicendo sempre le stesse cose…


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