RAVENNA FESTIVAL/ Beatrice Rana e Ludwig van Beethoven, due giovani a confronto | la CRONACA di RAVENNA

RAVENNA FESTIVAL/ Beatrice Rana e Ludwig van Beethoven, due giovani a confronto

Intervista alla pianista salentina dalla brillante carriera che domani sera sarà per la prima volta al Ravenna Festival in un concerto diretto da Valery Gergiev

27 giugno 2020 - Ventisette anni e una carriera stellare, la pianista Beatrice Rana sarà a Ravenna domani, domenica 28 giugno, con il direttore d’orchestra Valery Gergiev e l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, per la prima volta in un concerto del Ravenna Festival. Alla Rocca Brancaleone, interpreterà il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Ludwig van Beethoven; seguirà la Sinfonia n. 6 “Pastorale”, in omaggio al compositore tedesco di cui ricorre quest’anno il 250° anniversario della nascita. Beatrice Rana ritornerà nella nostra città il 18 luglio per “Duets and Solos”, lo spettacolo in cui, con il violoncellista Mario Brunello, avrà l’inedita esperienza di accompagnare le coreografie dei danzatori in scena.

Figlia di pianisti, cresciuta in una famiglia dove la musica era pane quotidiano, la pianista originaria della provincia di Lecce ha vinto a vent’anni due premi dello statunitense Concorso Van Cliburn, uno dei più autorevoli in campo mondiale. Di lì in poi sono arrivate le tournée internazionali, le collaborazioni con i grandi direttori d’orchestra, da Zubin Mehta a Yuri Temirkanov, da Antonio Pappano a Riccardo Chailly, e numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio Abbiati della critica musicale italiana. Giovane com’è, si è già meritata inoltre il titolo di Cavaliere della Repubblica italiana.

Beatrice Rana è una giovane donna dei nostri tempi che ama uscire con gli amici, quando gli impegni concertistici glielo permettono, e ha un felice rapporto con la sua famiglia. Appassionata e determinata, appare del tutto a suo agio nella vita che conduce, nel rapporto con il pubblico e con i musicisti con i quali collabora. Il suo amore per la musica l’ha spinta anche a fondare un festival internazionale di musica da camera, “Classiche Forme”, che si tiene ogni anno nel Salento.
Le abbiamo rivolto qualche domanda partendo da una considerazione: la prima parte del concerto di domani sera sarà nel segno della gioventù, con l’eccezione del sessantasettenne Valery Gergiev: la solista ha ventisette anni, i musicisti dell’Orchestra Cherubini ne hanno meno di trenta e lo stesso Beethoven, quando compose il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra, aveva trent’anni.

Beatrice Rana, pensa che si sentirà un’assonanza tra interpreti e compositore, anche se avere trent’anni nel 1800 non era come avere la stessa età ai giorni nostri?
Penso di sì. Quasi sempre si considera la musica classica di difficile comprensione, quindi destinata a un pubblico maturo, adulto. Invece, se ci si sofferma a pensare che un’opera come il Concerto n. 3 è stata scritta da un Beethoven molto giovane, si rimane stupiti. È vero che i trent’anni del 1800 non erano i trent’anni del 2000, ma è anche vero che le emozioni umane, le speranze della gioventù sono sempre le stesse e in un lavoro come questo sono molto riconoscibili. Penso che ci saranno delle assonanze tra noi interpreti e il brano beethoveniano e che il pubblico le avvertirà.

La serata del 18 luglio sarà di tutt’altro segno: com’è nata l’idea di unire due solisti di gran rango come lei e Mario Brunello e i danzatori che si esibiranno, coppie nella vita come nell’arte?
Il periodo di quarantena ha ingenerato una gravissima crisi in tutto il settore dello spettacolo dal vivo e ora ci troviamo a dover seguire delle regole terribili. Il significato delle arti di spettacolo è quello di aggregare le persone, sia sul palcoscenico sia nel pubblico, e la pandemia ha proprio snaturato il senso del nostro lavoro. Il Ravenna Festival ha avuto questa trovata che trovo geniale, di unire due musicisti e coppie di danzatori in passi a due: un’idea che non solo riesce ad arginare la portata delle norme di sicurezza, ma anche a trovare un significato più profondo in questa crisi. Quella di coniugare la musica che suono con la danza è una possibilità che finora non avevo mai esplorato e, siccome esplorare cose nuove mi piace, ho aderito con piacere alla proposta.

Lei è stata premiata a vent’anni, nel 2013, in una competizione importante come il Van Cliburn e ha avviato fin da giovanissima una grande carriera, però fino al 2017 ha continuato a studiare sotto la guida di maestri. Non si sentiva già arrivata?

Nel 2014 ho completato a Hannover il mio percorso di studi con il pianista israeliano Arie Vardi e poi per qualche anno ancora ho studiato a Roma con Benedetto Lupo, che è stato il mio primo e ultimo maestro. Vincere un concorso è sempre arrivare a un bel traguardo, ma si tratta solo di un enorme punto di partenza. Sono momenti delicati, quelli, e c’è bisogno di qualcuno che si ponga come una guida.

E la guida non potevano essere i suoi genitori, entrambi pianisti?
No, loro mi hanno dato un grande supporto, incoraggiamento e anche approvazione, ma non hanno mai interferito con i miei studi. Ci devono essere dei ruoli ben definiti e il loro ruolo era un altro. Nascere in una famiglia di musicisti, d’altra parte, ha influito in maniera determinante sul mio percorso; con genitori diversi, forse non avrei avuto la fortuna di scoprire così presto questo talento e forse non l’avrei scoperto affatto. Respirare musica quotidianamente, poterne parlare è stato ed è un enorme privilegio.

Patrizia Luppi


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